Il 35% di tutte le emissioni di anidride carbonica e metano dal 1965 al 2017 è stato prodotto da 20 colossi del settore petrolchimico. In testa Saudi Armaco (il 4,38% del totale), la multinazionale statunitense Chevron (il 3,2% del totale) e la russa Gazprom (3,19%). Lo rivela un’indagine del Climate accountability institute rilanciata dal Guardian.
Oltre un terzo delle emissioni di anidride carbonica e metano, i cosiddetti gas serra, è stata prodotta da appena 20 colossi internazionali dell’oil&gas. Nel complesso si parla di 480 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente (una misura che indica l’impatto di gas serra diversi), pari al 35% di tutte le emissioni da combustili fossili e cemento prodotte su scala globale dal 1965 al 2017. Sul “podio” svettano la compagnia nazionale saudita Saudi Aramco (il 4,38% del totale), la multinazionale statunitense Chevron (il 3,2% del totale) e la russa Gazprom (3,19%), responsabili da sole di più di un decimo delle emissioni generate su scala internazionale negli ultimi 50 anni circa.
I dati emergono da un report pubblicato dal Climate accountability institute, un istituto di ricerca, e rilanciato dal quotidiano inglese Guardian. «Basandoci sulla teoria che i produttori di combustili fossili hanno una responsabilità per gli effetti negativi dei loro prodotti - si legge nel report - Abbiamo determinato in che misura i combustili fossili delle singole aziende abbiano contribuito all’aumento delle emissioni».
Le 20 aziende che producono più emissioni
MtCO2e | In % sul totale globale | |
Saudi Aramco, Arabia Saudita | 59.262 | 4,38 |
Chevron, Usa | 43.345 | 3,20 |
Gazprom, Russia | 43.230 | 3,19 |
ExxonMobil, Usa | 41.904 | 3,09 |
National Iranian Oil Co. | 35.658 | 2,63 |
Bp, Regno Unito | 34.015 | 2,51 |
Royal Dutsch Shell, Paesi Bassi | 31.948 | 2,36 |
Coal India, India | 23.124 | 1,71 |
Pemex, Messico | 22.645 | 1,67 |
Petroleos de Venezuela (PDVSA) | 15.745 | 1,16 |
PetroChina/ China Natl Petroleum | 15.632 | 1,15 |
Peabody Energy, Usa | 15.385 | 1,14 |
ConocoPhillips, Usa | 15.229 | 1,12 |
Abu Dhabi, Emirati Arabi | 13.840 | 1,01 |
Kuwait Petroleum Corp., Kuwait | 13.479 | 1,00 |
Iraq National Oil Co.,Iraq | 12.596 | 0,93 |
Total Sa, Francia | 12.352 | 0,91 |
Sonatrach, Algeria | 12.302 | 0,91 |
Bhp Billiton, Australia | 9.802 | 0,72 |
Petrobas, Brasile | 8.676 | 0,64 |
Top 20 | 480.168 | 35,45 |
Emissioni globali | 1.354.388 | 100 |
Fonte: Climate Accountability Institute |
Quei miliardi tonnellate di CO2 e metano emessi in 50 anni.
I 480 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente attribuite alle 20 aziende in classifica, di cui 12 a controllo statale, incidono sul totale di 1.354 tonnellate prodotte nel periodo sotto esame (1965-2017) dalle stesse fonti. L’intera serie storica analizzata dall’istituto rivela che un totale 103 realtà aziendali ha prodotto il 69,8% di tutte le emissioni registrate dal 1751, con un’incidenza sul 30% netto delle emissioni solo da parte delle 20 società in cima al ranking. «Metà di tutte le emisisoni da combustibili fossili e cemento dal 1751 ad oggi - si legge nel report - sono state prodotte dal 1990 ad oggi. Queste aziende hanno significative responsabilità morali, finanziarie e legali sulla crisi climatica». Oltre alla triade Saudi Aramco, Chevron e Gazprom, la classifica include nomi come ExxonMobile (3,09%), National iranian oil (2,63%), Bp (2,51%) e Royal Dutch Shell (2,36%).
Fonte: Il Sole 24 Ore
C’è ancora bisogno di parlare di sicurezza sui posti di lavoro? Seguendo l’allarmante ritmo che la cronaca ci riporta e verificando i dati del primo trimestre 2019 pubblicati da INAIL, sembrerebbe proprio di sì.
212 sono i morti sul lavoro da gennaio a marzo di quest’anno e che sia lo stesso numero del trimestre 2018 non consola ma preoccupa.
Perché il numero delle vittime non cala, anzi: l’Osservatorio indipendente di Bologna, alla data del 17 maggio, conta 504 vittime sul territorio nazionale.
A Bologna, dal 15 al 17 ottobre prossimo si svolgerà l’edizione numero 19 di Ambiente Lavoro, il Salone della Salute e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro, organizzato da Bologna Fiere in collaborazione con Senaf.
Ambiente Lavoro non è solo questo: il suo quasi ventennale impegno è dedicato anche alla cultura del “benessere” sul luogo di lavoro, a partire dalla ricerca dei migliori risultati, in termini di prodotto ad esempio, che la nostra industria può offrire per prevenire malattie professionali invalidanti o infortuni. In questi casi, infatti, vi è da considerare il primo e più importante aspetto, quello della salute del lavoratore per la cui tutela è fondamentale prevedere l’uso di ausili capaci di rendere il lavoro più sicuro e al tempo stesso più performanti le prestazioni. Ma è necessario tenere in conto anche i costi che le malattie professionali e gli incidenti fanno ricadere sul nostro Sistema Sanitario Nazionale.
Le denunce di infortunio registrate da INAIL infatti, sempre nei primi tre mesi del 2019, sono state 157.715, in aumento di circa 2.900 casi (+1,9%) rispetto alle 154.820 del primo trimestre del 2018. Per ciò che invece riguarda le malattie professionali, protocollate dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni, nei primi tre mesi del 2019 siamo difronte ad un calo del 1,4% rispetto all’analogo periodo dello scorso anno. Tuttavia le malattie professionali a carico del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (8.286 casi), del sistema nervoso (1.520) e dell’orecchio (986) restano le più frequenti.
L’edizione 2019 di Ambiente lavoro sarà particolarmente attenta al tema del rischio fisico e chimico, del soccorso industriale e ai pericoli a cui sono esposti i lavoratori della distribuzione organizzata.
Mentre al comparto degli ausili a tutela della salute e della sicurezza sarà dedicata l’iniziativa speciale “Campo prove”: una galleria in cui saranno ricostruite le situazioni di rischio e le soluzioni innovative che possono essere adottate per evitarle. Grande attenzione sarà dedicata agli esoscheletri il cui impiego non solo evita malattie invalidanti per i lavoratori occupati in settori usuranti, come il trasporto di materiale o l’utilizzo di attrezzature pesanti, ma migliorano la sicurezza e la salute degli operatori.
Fonte: Ufficio Stampa di Ambiente Lavoro
La tutela della salute e della sicurezza sul lavoro non vengono ancora considerate come un valore strategico da parte delle aziende.
Prima di provare a rispondere alla domanda del titolo, cominciamo con fornire qualche dato.
Nel 2018, secondo quanto reso noto dall’INAIL, le morti accertate sul lavoro sono state 704 (643 uomini e 61 donne), 30 in più rispetto al 2017, a fronte di 1.218 denunce di infortunio mortale, con un aumento del 4% rispetto al 2017 (ma ancora ci sono 35 casi sono in istruttoria).
Nei primi quattro mesi del 2019 la tendenza, sempre in valore assoluto, si conferma in crescita, visto che le denunce di infortunio mortale sono state 303 con un aumento del 5,9% sullo stesso periodo del 2018. Le denunce di malattia professionale sono state circa 59.500 (+2,6% sul 2017).
Va anche detto che dal 1970 ad oggi, gli infortuni mortali sono scesi dai quasi 4000/anno del 1970 ai 1250 ca. del 2018.
E’ vero che si tratta di valori assoluti che non possono fornire informazioni statisticamente significative per individuare l’effettivo trend degli infortuni mortali, visto che non sono pesati sulle ore effettivamente lavorate o su quelle retribuite o, almeno, sul numero di occupati ma, in ogni caso, sono numeri che fanno palesemente intendere che il nostro Paese ha ampi margini di miglioramento davanti per il contrasto a questo fenomeno.
Per quanto riguarda, invece, gli infortuni totali, le statistiche ci dicono che dagli anni ’70 ad oggi, essi sono in costante calo sia in valore assoluto che pesati sul numero di occupati (Indice di incidenza)
Fatta questa premessa per rispondere alla domanda nel titolo, dobbiamo partire da lontano e domandarci quale è il peccato originale dell’italico sistema per la tutela della salute e sicurezza sul lavoro?
Il peccato originale è che il nostro sistema prevenzionale adotta un approccio colpevolizzante in quanto basato sulla sanzione penale con l’obiettivo reprimere un comportamento negligente, omissivo, ecc. che ha portato ad una situazione di pericolo o, peggio, ha causato un grave infortunio.
Si tratta palesemente di un approccio centrato sulle mancanze e sugli errori degli individui che se sbagliano, devono essere puniti tramite una sanzione penale.
A questo punto dobbiamo chiederci se questo approccio porti o meno dei vantaggi.
Apparentemente la risposta è positiva in quanto tale approccio è comodo e sostenibile perché:
- nel nostro ordinamento penale, la responsabilità è personale;
- i comportamenti pericolosi, ai vari livelli nella gerarchia aziendale, sono all’origine della maggioranza degli infortuni;
- l’individuazione del/dei colpevole/i soddisfa le esigenze della Collettività nonché le aspettative emotive di coloro che, a vario titolo, sono coinvolti.
Se però andassimo ad analizzare con maggiore attenzione questo tipo di approccio, ci accorgeremmo che:
- la ricerca del/dei colpevole/i porta a tralasciare l’analisi delle organizzazioni aziendali nella loro interezza;
- la mancata analisi delle organizzazioni aziendali consente di mantenere alle stesse lo status quo, con la struttura, le regole ed il sistema di poteri esistente al momento dell’evento.
- non si analizzano le decisioni strategiche riguardanti la progettazione e l’organizzazione del lavoro e le tecnologie utilizzate.
Tutto ciò fa sì che non si intervenga alla fonte del problema e non si rimuovano le cause primarie di quanto avvenuto.
A questo punto dobbiamo domandarci perché non si riesca a sviluppare una strategia efficace.
Per quanto riguarda il sistema normativo e regolamentare, l’Italia ha un Sistema Prevenzionale da manutenzione a guasto: quando si verifica un grave evento o nasce un problema, scatta la normazione emozionale o d’emergenza come, ad esempio, per il D. Lgs. n° 81/2008 o per il DPR n° 177/2011.
Dimenticandoci un attimo che provvedimenti emanati sotto questo tipo di spinte non raggiungono mai gli obiettivi prefissi, quando viene pubblicato un nuovo provvedimento l’approccio prevalente delle aziende pubbliche e private è quello di sperare in un rimando, in un posticipo dell’entrata in vigore con la classica affermazione:
Un altro aspetto che influenza il mancato sviluppo di un’adeguata ed efficace strategia è il cambiamento che hanno subito in questi anni il mercato del lavoro e il contesto socioeconomico:
- cambiamento rapporti di lavoro con richiesta di maggiore flessibilità;
- terziarizzazione spinta;
- incremento del turno over;
- accesso al mercato del lavoro di personale con palesi deficit di competenze;
- tempi medio-lunghi per il pay back dell’eventuale investimento per la tutela della salute e sicurezza sul lavoro;
- crisi economica con riduzione risorse;
- incremento lavoro nero.
Tutto ciò porta ad ovvie conseguenze:
- riduzione degli investimenti prevenzionali;
- organizzazione non accurata dei processi formativi del personale;
- adozione di comportamenti pericolosi quando ci sono condizioni d’incertezza lavorativa;
- adempimenti formali e non sostanziali;
- norme e regole prevenzionali senza valore aggiunto ai fini competitivi;
- scarsa attenzione alle competenze del personale impiegato.
Per quanto riguarda i bisogni ed aspettative individuali si sta assistendo a:
- l’incremento di compiti lavorativi monotoni e ripetitivi;
- l’aumento del livello di intolleranza verso i rischi causati da terzi con maggiore tolleranza verso i rischi propri e cioè verso i rischi che si decidono di assumere autonomamente;
- una scarsa attenzione alle peculiarità del tessuto industriale nazionale;
- una scarsa attenzione all’importanza del benessere organizzativo.
La strategia aziendale risulta molto spesso carente in quanto:
- si riscontra una diffusa incapacità a comprendere che la sicurezza sul lavoro influenza il risultato economico ed il valore dell’impresa;
- appare evidente la mancata percezione degli effetti della sicurezza sul lavoro sulla competitività dell’impresa;
- è palese la miopia gestionale che porta a non vedere gli effetti positivi della sicurezza sul lavoro nel medio-lungo periodo.
Gli obiettivi in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, quando fissati, sono di conseguenza:
- di tipo reattivo come, ad esempio, una riduzione degli indici di frequenza, incidenza, gravità, ecc.;
- in alcuni casi di tipo non misurabile;
- fissati senza definirne priorità, risorse, strumenti, ecc.;
- privi della pianificazione e programmazione delle azioni necessarie per il loro raggiungimento;
- non coerenti con gli altri obiettivi aziendali (produttività, ecc.);
- non considerati strategici (specialmente nelle PMI).
Indubbiamente, come gli addetti ai lavori ben sanno, esistono tutta una serie di barriere che ostacolano una gestione ottimale della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro:
- carenza di competenze specifiche;
- percezione inadeguata, da parte delle funzioni apicali, degli impatti della sicurezza sul lavoro sul business dell’azienda;
- mancanza di strumenti analitici e gestionali dedicati;
- scarsa o nessuna percezione del costo della non sicurezza.
Inoltre, gli approcci prevalenti al Problema Sicurezza sul Lavoro, ancor oggi diffusi in Italia, erigono altre barriere come quelle che seguono.
Approccio Normotecnico: si percepisce la sicurezza e la tutela della salute solo come un rigido adempimento di norme legali e procedure tecniche che non producono valore alcuno ma che intralciano le normali attività produttive.
Approccio Reattivo: ci si attiva solo dopo che si è presentato il problema.
Approccio Fast-Food: si ricercano e si accettano solo soluzioni veloci anche se qualitativamente scadenti ed inefficaci.
Approccio da specchietto retrovisore: per dimensionare l’impegno futuro si utilizza come unico parametro di riferimento quanto si faceva in passato.
Approccio pseudo-economico: non si investe adeguatamente per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro perché non si considera critico il Problema Sicurezza sul Lavoro, in quanto non crea vincoli che impediscono il raggiungimento degli obiettivi ritenuti prioritari, e, pertanto, non necessita di investimenti e, dunque, si possono minimizzare i costi prevenzionali connessi.
Nelle grandi aziende, le barriere derivano da una serie di scelte organizzative e di approcci al problema quali:
- la posizione organizzativa di chi si occupa di sicurezza e tutela della salute che, nella maggioranza dei casi, non riferisce mai direttamente al datore di lavoro (ex art. 2, comma 1, lett. f) D. Lgs. n° 81/2008);
- non considerare oggetto d’esame, nelle riunioni dei vertici aziendali, la verifica dell’andamento delle attività o iniziative specifiche e relative performance in materia di sicurezza e tutela della salute;
- la sicurezza sul lavoro è vista come un costo e non come un investimento;
- l’argomento sicurezza non viene discusso nelle riunioni settimanali dell’Alta Direzione (ma solo dopo qualche grave evento!);
- l’Alta Direzione non conosce le performance specifiche dell’azienda;
- le varie funzioni aziendali lavorano a compartimenti stagni e sub ottimizzano gli obiettivi (ad esempio, un ufficio acquisti che seleziona gli appaltatori con il solo criterio del minor costo);
- si mantiene la cultura parallela della sicurezza che si traduce in specifici obiettivi, specifici budget, specifiche iniziative, specifici linguaggi, specifiche norme, specifiche procedure, specifiche …(insomma, tutto specifico e nulla di condiviso);
- la sicurezza sul lavoro non è inserita nei sistemi di valutazione delle performance individuali delle posizioni apicali ed ei loro diretti sottoposti (al più, il peso è praticamente trascurabile);
- la performance individuale ed aziendale riguardo la sicurezza sul lavoro non influenza significativamente il sistema di erogazione dei premi/bonus annuali per tutto il personale;
- una carenza diffusa di competenze dei manager in materia di sicurezza sul lavoro;
- gli obiettivi prevenzionali non vengono fissati dai manager ed essi non sono incoraggiati a prendere decisioni ed iniziative anche in quest’area.
Nei confronti di coloro che si occupano professionalmente di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, sempre nelle grandi aziende, sussistono tutta una serie di preconcetti molto più diffusi di quanto si possa pensare.
Vediamone alcuni.
Impegno per la certificazione Sistemi di Gestione Sicurezza
- Spesso per le altre funzioni aziendali la certificazione è un “pezzo di carta” oppure una serie di “moduli da riempire”: <<una volta ottenuta … è fatta, abbiamo ottenuto il bollino blu!>>
- Incapacità delle altre funzioni di comprenderne l’importanza come:
- strumento di sostegno e spinta nei percorsi verso l’eccellenza del sistema impresa;
- parte fondamentale per il Modello Organizzativo (ex D.Lgs. n°231/2001)
Aspettative
Le altre funzioni hanno aspettative errate nei confronti della funzione H&S/HSE in quanto principalmente pensano che sia la funzione a cui è demandato il controllo del rispetto delle norme e dei comportamenti.
Compiti “diversi”
Attribuzione di compiti aggiuntivi non pertinenti:
<<Gestiscono solo carta e quindi hanno tempo per fare altro! Si occupino anche di fare i badge di entrata al personale degli appaltatori!>>
Percezione delle altre funzioni
H&S/HSE? <<E’ una funzione da sfigati>>. <<Sono solo un costo! Non producono valore aggiunto>>. <<Non si devono coinvolgere in progetti per evitare che ritardino il tutto>>. Quindi, percepiti come predicatori nel deserto e iettatori quando si verifica l’evento!
Training
Nessun supporto dalla funzione aziendale specifica:
<<La formazione alla sicurezza è una roba specialistica, quindi ve ne occupate voi di H&S/HSE>>.
Richiesti, però, alla funzione H&S/HSE il numero di partecipanti e le ore erogate per il raggiungimento obiettivi della funzione Training!
Budget
Difficoltà a farsi finanziare iniziative che portano risultati dopo anni.
Obiettivi H&S/HSE
Obiettivi di performance attribuiti in esclusiva o con peso maggiore ai responsabili della funzione H&S/HSE, rispetto ai gestori dell’attività (direttori, dirigenti in genere, ecc.).
Posizione Organizzativa della funzione H&S/HSE
Una funzione:
- spesso posizionata in funzioni di line e non di staff;
- che sovente risponde, per convenienza organizzative, a funzioni non competenti nella specifica materia come, ad esempio, le Relazioni Industriali;
- i soggetti designati quali responsabili della funzione di cui sopra, magari denominata in modo altisonante come Continuous Improvement o Sustainability, spesso scelti tra i prodotti di risulta dalle altre posizioni organizzative o in vista della pensione, quasi sempre non competenti (senza know-how specifico in ambito HSE) ma solo preoccupati di gestire l’attività con l’obiettivi di non arrecare disturbo ad altre funzioni ed evitare lo scivolo pensionistico anticipato.
Per quanto riguarda le piccole aziende, qui le barriere derivano dalla:
- percezione della sicurezza come un insieme di norme e procedure che non produce valore alcuno ed intralcia le attività produttive;
- constatazione che la frequenza degli infortuni non è, nella realtà della piccola impresa, statisticamente significativa;
- resistenza che il piccolo imprenditore mette sempre in atto nei confronti di qualunque intervento esterno che gli vuole cambiare le prassi lavorative, interferendo con la sua attività;
- difficoltà a comprendere che:
- la non sicurezza provoca assenteismo, conflittualità, turnover, aumento costi assicurativi, ecc.;
- le dimensioni della piccola impresa non permetteranno mai di compensare gli effetti negativi degli infortuni (a differenza della grande impresa che riesce a ridistribuirli);
- gli investimenti prevenzionali possono, invece, essere presentati come strumento spendibile per il mantenimento e l’acquisizione di nuovi clienti.
Il risveglio dal letargo delle aziende, piccole e grandi, in genere, si ha quando si verifica un evento negativo come un grave infortunio.
A questo punto, le aziende percepiscono il rischio concreto di perdite economiche reali o incombenti, le pressioni della pubblica opinione ed eventuali pressioni regolamentari derivanti dall’intervento del legislatore pur sempre nell’ottica emergenziale.
Di conseguenza viene dato un impulso al miglioramento del livello di sicurezza.
Purtroppo, però, questo impulso non dura in eterno.
Le aziende, dopo un po’ di tempo, tendono a dimenticare … e iniziano a ridurre le risorse destinate al processo di miglioramento.
Così facendo si abituano al loro stato apparentemente sicuro e ritornano vulnerabili agli eventi citati.
A questo punto bisogna domandarsi cosa si debba fare per evitare di ripiombare nello stesso stato pre-intervento.
Certamente un forte commitment da parte dei vertici aziendali risulta essenziale per il mantenimento del processo di miglioramento. Ovviamente, quando si parla di commitment ci si riferisce a quella variabile organizzativa che è il risultato delle politiche, delle scelte strategiche, delle modalità gestionali utilizzate dai vertici aziendali, ma anche dei rapporti di potere, dei conflitti, del clima psicologico e organizzativo di una organizzazione.
Un commitment adeguato deve, per quanto riguarda la motivazione alla sicurezza, non limitarsi ai meri adempimenti minimi previsti dalle norme di legge e regolamentari ma andare ben oltre favorendo il miglioramento continuo in modo da proporre l’azienda come modello di riferimento per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
In termini di risorse, un commitment efficace deve assicurarne la disponibilità non solo in termini economici ma anche umani valorizzando le persone che operano nella funzione H&S/HSE intesa come area di sviluppo e non certo come area di parcheggio di professionalità ritenute non strategiche dall’azienda.
Insieme al commitment l’azienda deve costruire un sistema con adeguate competenze tecniche che preveda, oltre all’identificazione dei pericoli, la valutazione dei rischi e le conseguenti misure di prevenzione e protezione, anche:
- una struttura organizzativa sufficientemente flessibile e adattiva;
- informazioni pertinenti raccolte, analizzate, diffuse e utilizzate;
- contenuti quali-quantitativi della comunicazione adeguati;
- sistemi di difesa adeguati alle specificità dell’azienda e non ridondanti.
Infine, estremamente importante è lo sviluppo di una adeguata consapevolezza dei pericoli esistenti nei propri processi con:
- la completa coscienza dei pericoli presenti da parte di tutta l’organizzazione;
- la piena consapevolezza che un lungo periodo senza eventi avversi debba considerarsi come un periodo di accresciuto pericolo;
- la revisione e rafforzamento continuo dei propri sistemi di difesa;
- una soglia d’attenzione mantenuta sempre alta.
Pertanto, è essenziale:
- non trattare la sicurezza come un processo di produzione negativo, fissando solo obiettivi di raggiungimento di livelli ridotti di eventi negativi (indicatori di frequenza, gravità e incidenza);
- ricordarsi che gli eventi inattesi, in quanto tali, non sono direttamente controllabili e sono al di fuori della sfera d’influenza dell’organizzazione;
- valutare e migliorare i processi base dell’organizzazione: progettazione, pianificazione, proceduralizzazione, manutenzione, formazione, ecc.., in quanto questi influenzano le probabilità d’accadimento degli eventi e sono direttamente gestibili dai manager dell’azienda.
In conclusione, a parere di chi scrive, un possibile cambiamento lo potremo avere:
- abbandonando l’idea dell’incremento delle sanzioni e dell’aumento dei controlli, quale soluzione del problema;
- cominciando a sensibilizzare la Pubblica Opinione mediante periodiche campagne mirate sui massmedia;
- creando meccanismi seri per l’accesso e permanenza sul mercato;
- costruendo sistemi di rating sull’affidabilità delle aziende anche per quanto riguarda la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro dandone anche larga diffusione;
- strutturando un permanente e selettivo sistema di finanziamento per piccole e medie imprese;
- regolarizzando le diffuse situazioni di pericolo esistenti nei luoghi di lavoro della PP.AA., cominciando dalle scuole, in modo da recuperare credibilità nei confronti della pubblica opinione;
- attivando iniziative di sensibilizzazione fin dalle scuole primarie;
- introducendo la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in tutti i corsi di laurea.
La lotta ai DMS non solo contribuisce a migliorare la vita dei lavoratori, ma è anche una scelta molto sensata per le imprese.
In genere i disturbi muscoloscheletrici (DMS) interessano la schiena, il collo, le spalle e gli arti superiori, ma possono anche colpire gli arti inferiori. Indicano qualsiasi lesione o patologia alle articolazioni o ad altri tessuti. I problemi di salute vanno da malesseri e dolori di lieve entità sino a problemi più seri che costringono ad assentarsi dal lavoro e possono richiedere cure mediche. Nei casi cronici più gravi, possono addirittura portare alla disabilità e all'abbandono forzato del posto di lavoro.
I due gruppi principali di DMS sono costituiti dai dolori/disturbi alla schiena e dai disturbi degli arti superiori legati all'attività lavorativa (conosciuti comunemente "disturbi da stress fisici ripetuti").
Cause dei disturbi muscoloscheletrici
La maggior parte dei DMS legati all'attività lavorativa si sviluppano nel tempo. Di norma non hanno una sola causa: spesso sono provocati da una combinazione di diversi fattori. Tra le cause fisiche e i fattori di rischio riconducibili all'organizzazione del lavoro si annoverano:- la movimentazione di carichi, specialmente quando si ruota o si piega la schiena;
- movimenti ripetitivi o che richiedono uno sforzo;
- l'assunzione di posture scorrette o statiche;
- vibrazioni, scarsa illuminazione o lavoro in ambienti freddi;
- ritmi intensi di lavoro;
- il mantenimento prolungato della stessa posizione in piedi o seduta.
Crescono le prove che dimostrano un collegamento dei DMS con i fattori di rischio psicosociali (soprattutto se individuati in concomitanza con i rischi fisici), tra cui:
- una domanda di lavoro elevata o una scarsa autonomia;
- una scarsa soddisfazione sul lavoro.
Prevenzione dei disturbi muscoloscheletrici
Non c'è una soluzione unica; talvolta può essere necessario rivolgersi a un esperto in caso di problemi gravi o inconsueti. Tuttavia, molte soluzioni sono semplici e poco costose (per esempio si possono fornire i lavoratori di un carrello di supporto per movimentare le merci o spostare oggetti su una scrivania).
Per contrastare i DMS, i datori di lavoro dovrebbero servirsi di una combinazione dei seguenti fattori:
- la valutazione dei rischi: adottare un approccio olistico, valutando e affrontando l'insieme delle cause (vedi sopra);
- la partecipazione dei dipendenti: coinvolgere il personale e i suoi rappresentanti nelle discussioni sui problemi e sulle soluzioni possibili.
Per saperne di più, leggi la scheda informativa "prevenire le patologie muscoloscheletriche legate all'attività lavorativa" riportata sotto.
Azioni per ridurre i disturbi muscoloscheletrici
Le azioni di prevenzione potrebbero includere modifiche riguardanti:
- gli spazi di lavoro, adeguandoli al fine di migliorare le posture lavorative;
- le attrezzature, assicurando che siano ergonomiche e adatte ai compiti da svolgere;
- i lavoratori, migliorando la loro consapevolezza dei rischi e impartendo una formazione su buoni metodi di lavoro;
- i compiti, cambiando metodi o strumenti di lavoro;
- la gestione, pianificando il lavoro in modo da evitare mansioni ripetitive o prolungate con posture scorrette, programmando pause, la rotazione delle funzioni o la riassegnazione del lavoro;
- i fattori organizzativi, sviluppando una politica in materia di DMS.
Anche il monitoraggio e la promozione della salute, il riadattamento e il reinserimento dei lavoratori che ancora soffrono di DMS vanno considerate nell'approccio di gestione di tali disturbi.
Normativa europea
Le direttive europee, i regolamenti degli Stati membri e gli orientamenti sulle buone prassi già riconoscono quanto sia importante prevenire i DMS. Tra le direttive pertinenti figurano la "direttiva quadro" generale sulla SSL e le direttive sulle tematiche seguenti: la movimentazione manuale di carichi, le attrezzature di lavoro, gli standard minimi per i luoghi di lavoro e le attività lavorative svolte con videoterminali (schermi di computer).
Nel 2007 la Commissione europea ha avviato una consultazione su possibili interventi comunitari, tra cui una nuova normativa. I possibili piani sono stati sospesi in pendenza di un riesame delle direttive dell'UE nel 2014-2015. I DMS sono riconosciuti come una priorità degli Stati membri dell'UE e delle parti sociali europee.
L'EU-OSHA monitora l'incidenza, le cause e la prevenzione dei DMS oltre a favorire la condivisione delle buone prassi.
Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.Fonte: Puntosicuro
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